La Sesta Sezione della Cassazione[1] è recentemente tornata sul tema della clausola compromissoria presente nei patti sociali di una società di persone, costituita prima dell’entrata in vigore del D. Lgs 5/03, ribadendo la nullità di quella clausola che preveda, per le controversie tra soci o tra soci e società, la nomina dell’arbitro ad opera dei soci e, solo in caso di disaccordo, ad opera del Presidente del Tribunale.
La Corte di Cassazione rileva come una siffatta clausola si ponga in contrasto con l’art. 34 comma II del D. Lgs. 5/03, immediatamente applicabile alle società di persone, anche per quanto attiene alle clausole compromissorie stipulate precedentemente alla sua entrata in vigore.
La clausola del tipo di quella analizzata dalla Corte prevede, infatti, il deferimento di tutte le controversie che insorgano tra i soci, o tra i soci e società ad un arbitro amichevole, scelto di comune accordo tra le parti e, solo in caso di disaccordo, dal Presidente del Tribunale su istanza della parte più diligente.
In tal modo viene attribuito alle stesse parti in via principale il potere di nomina, mentre il ricorso all’autorità giudiziaria appare essere una facoltà meramente subordinata “destinata ad operare soltanto nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un consenso sulla designazione”.
L’art. 34 del D. Lgs 5/03 prevede, invece, una disciplina differente. In particolare, dopo aver previsto la possibilità per le società (ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ai sensi dell’art. 2325 bis c.c.) di inserire negli atti costitutivi una clausola che preveda la devoluzione a un arbitro delle controversie tra soci o tra soci e società, che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, precisa tuttavia un requisito necessario della nomina.
In particolare stabilisce che, a pena di nullità, il potere di designazione degli arbitri deve essere conferito a un soggetto terzo estraneo alla società e, nel caso di mancato adempimento da parte di quest’ultimo, su richiesta delle parti, al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha sede legale.
Ecco dunque che diversamente dalla clausola oggetto di giudizio, il potere non è rimesso in via principale alle parti e solo in via subordinata all’autorità giudiziaria, ma, al contrario, già in prima battuta a un soggetto estraneo alla società.
Secondo la Corte, quindi, per espressa previsione della legge, dal contrasto del contenuto della clausola oggetto di giudizio e il precetto dettato dell’art. 34 comma II D. Lgs. 5/03 non può che derivare conseguentemente la nullità della stessa clausola compromissoria.
Non rileva, secondo la Corte, il fatto che tale clausola fosse precedente alla riforma che ha investito il settore societario. L’entrata in vigore dell’art. 34 comma II ha comportato, infatti, la nullità sopravvenuta di tutte le clausole compromissorie contenute negli statuti di società, che non siano state oggetto di adeguamento entro i termini previsti dagli artt. 223 bis e 223 duodecies disp. att. trans. c.c., nella parte in cui attribuiscano il potere di nomina dell’arbitro alle parti e solo in via subordinata all’autorità giudiziaria.
La Corte di Cassazione afferma, infatti, di non condividere l’orientamento del “doppio binario”, secondo cui vi sarebbe in tali ipotesi una conversione dell’arbitrato endosocietario in arbitrato di diritto comune, “dal momento che la nullità comminata dall’art. 34 è volta a garantire il principio di ordine pubblico dell’imparzialità della decisione”.
[1] Cassazione civile, Sezione Sesta, Ordinanza n. 21442 del 24 ottobre 2016.
Post a cura di SuperPartes