La questione è assai interessante e attuale, in quanto attiene all’ipotesi in cui due persone convivano more uxorio e, durante il periodo della relazione, una fornisca all’altra delle somme di denaro, ad esempio per acquistare un immobile[1]. Ci si chiede se, alla fine del rapporto, l’ex convivente abbia diritto o meno alla restituzione del denaro.

Le soluzioni alla questione potrebbero essere molteplici. In particolare si potrebbe ipotizzare, come da taluni sostenuto, che il prestito di denaro durante una convivenza configuri un’ipotesi di obbligazione naturale fondata sulla stessa convivenza e come tale non ripetibile. In particolare, l’art. 2034 c.c. stabilisce che non è ammessa la ripetizione di quanto spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morale e sociali (salve ovviamente le ipotesi di incapacità).

Tuttavia questa ricostruzione non convince appieno, almeno quando la somma possa considerarsi cospicua. E non ha convinto nemmeno la giurisprudenza, che, al contrario, si è espressa, in ipotesi analoghe, a favore dell’applicabilità del diverso istituto contenuto nell’art. 2041 c.c., che disciplina l’azione di arricchimento senza giusta causa, posta a chiusura del sistema, immediatamente prima dei fatti illeciti (art. 2043 c.c.), da cui si distingue per l’assenza del dolo e della colpa.

In particolare, l’art. 2041 c.c. prevede che chiunque si sia arricchito senza una giusta causa a danno di un’altra persona (il convivente more uxorio in questo caso) è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della relativa diminuzione patrimoniale.

Presupposto indefettibile per l’applicazione dell’art. 2041 c.c. e dunque per la restituzione del denaro è, quindi, in ultima analisi, l’assenza di una giusta causa. Ma a cosa occorre volgere lo sguardo per capire se tale presupposto sussista?

La Corte di Cassazione ha ritenuto che, per capire quando vi sia o meno una giusta causa idonea a giustificare uno spostamento di ricchezza, nel caso di convivenza more uxorio, occorre rifarsi al principio di proporzionalità. In altre parole, occorre valutare l’entità dello spostamento patrimoniale tenendo conto delle condizioni economiche delle parti e quindi valutare se la suddetta prestazione possa o meno considerarsi adeguata al tenore di vita.

In particolare, ha affermato la Corte di Cassazione, che l’arricchimento risulta ingiusto in presenza di prestazioni rivolte al convivente more uxorio quando queste siano “esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza[2].

Pertanto si può affermare che, per capire quando ci si trovi in un’ipotesi di semplice adempimento di un’obbligazione naturale (e quindi irripetibile) o nella diversa ipotesi di un ingiustificato arricchimento (e quindi ripetibile nei limiti dello stesso) occorre guardare alla proporzionalità e adeguatezza della prestazione, tenuto conto delle condizioni economiche e di reddito delle parti.

[1] Corte di Cassazione sentenza n. 18632 del 22 settembre 2015.

[2] Corte di Cassazione sentenza n. 11330 del 15 maggio 2009.

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