Il giudice tavolare del Tribunale di Trieste, con decreto del 22 marzo 2016[1], ha affermato la nullità per mancanza di causa, di un atto di destinazione ex 2645 ter c.c., con cui la disponente aveva destinato, a favore del convivente more uxorio, un immobile a residenza comune, già oggetto di comodato tra le parti, parametrandolo alla vita del beneficiario e condizionandolo alla cessione irreversibile del rapporto di convivenza oppure all’alienazione della proprietà dell’immobile.

Il Tribunale argomenta tale decisione muovendo innanzitutto una critica a quanti ritengano che l’art. 2645 ter abbia introdotto una nuova figura negoziale, ritenendo più corretto identificare nella norma solo “l’individuazione di un nuovo effetto negoziale”, da realizzarsi mediante l’utilizzo di altri e necessari schemi negoziali tipici o atipici. Opinando diversamente, ritiene il giudice, non sarebbe nemmeno possibile individuare la struttura di questa nuova figura negoziale, permanendo dubbi, che la norma non risolve, circa la sua qualificazione in termini di negozio unilaterale o bilaterale, ad effetti traslativi o obbligatori e circa la sua natura gratuita o onerosa.

Da ciò deriva, essendo la segregazione patrimoniale solo l’effetto, la necessità di individuare aliunde la causa meritevole di tutela del negozio. Infatti per quanto si possa intendere la causa di un negozio nel modo più ampio possibile, in applicazione della tesi della causa in concreto, l’invocata tutela della convivenza more uxorio e della segregazione (che come visto è solo l’effetto del negozio) non sono di per loro sufficienti a rappresentare da sole la causa del negozio.

Nell’individuazione della causa, bisogna prestare attenzione a tenere ben distinti i motivi che possono aver spinto le parti a compiere il negozio da quello che è invece il vero e proprio profilo causale dell’atto stesso. A ciò si aggiunga che, nel caso in analisi, il Tribunale ha ritenuto effimeri anche i motivi che hanno spinto la disponente a compiere l’atto di destinazione e come tali non degni tutela, nonché collegati in ultima analisi alla discrezionalità della disponente stessa (che si era riservata la possibilità di revocare il negozio in presenza di una serie di circostanze, quali la cessazione del rapporto di convivenza o la vendita dell’immobile a terzi).

Così delineato l’intento della disponente è apparso al Tribunale più egoistico che altruistico, come invece espressamente richiesto dall’art. 2645 ter c.c., non spettando in caso di alienazione alcuna legittima aspettativa in capo al beneficiario e dunque nessuna obiettiva tutela.

Da tutte queste considerazioni deriverebbe, come conseguenza, che il programma negoziale non persegue alcun interesse meritevole di tutela, diversamente da quanto richiesto dall’art. 2645 ter c.c. e dal rinvio che la norma fa all’art. 1322 c.c. secondo comma.

Nel caso di specie, inoltre, il giudice ha gioco facile nel notare come il beneficiario sarebbe, alla luce degli atti di causa, addirittura già più tutelato alla luce del contratto di comodato precedentemente stipulato con la disponente, piuttosto che alla luce del negozio di destinazione. Nel caso di vendita dell’immobile l’atto di destinazione, secondo le coordinate dettate dalla stessa beneficiaria, appare revocabile, mentre il contratto di comodato rimarrebbe invece in vita in quanto stipulato per consentire al convivente more uxorio di destinare l’immobile a propria residenza e senza vincolo di durata.

[1] Tribunale di Trieste, Giud. Tavolare, decr. 22 marzo 2016.

Post a cura di SuperPartes

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